mercoledì 31 marzo 2010

Io & BRUCE: Secret Garden


Questo racconto appartiene alla serie di prose intitolata Io & Bruce. La canzone di Springsteen che condisce queste parole, che gli fa da sottofondo, è la meravigliosa Secret Garden: un brano immenso attorno al quale la filmografia e la critica si sono sprecati. Non ho la pretesa di credere di avere scritto una bella storia: anzi, questa è una storia di cui mi vergogno. Magari, però, la musica di Springsteen la salverà un po'. Solo un po'...


Deja Vù (100 giorni - parte 1)

La strada corre, lucida dei riflessi della neve, procedendo altalenante tra le curve della strada di montagna. Due giorni di assoluto fancazzismo. Due giorni potenzialmente destinati al devasto. Porcaeva, se ne avevo bisogno! Ne avevamo bisogno tutti, probabilmente. Gli amici automuniti arrivano, i mezzi carichi fino a scoppiare più di alcol bevibile che di cibo solido.
La neve è alta almeno mezzo metro. Qualcosa mi dice che domani farà quasi caldo, ma anche che non sarà una giornata bellissima all day long. Non ce ne è una da lunedì, non vedo perché oggi dovrebbe essere diverso.
Questo panorama di montagna è qualcosa di fantastico; la luce sembra giocare con gli occhi attraverso mille sfumature. Eppure c'è qualcosa che non mi convince. E' la stessa certezza che mi dice che domani farà caldo, ma non sarà una bella giornata. E' una sensazione di qualcosa come già vissuto.
Sarà la nebbia che avanza. Deja vù.

Il Pagliaccio e la Pagliaccina


Continuava a camminare in salita da ormai troppo tempo; la cima non si vedeva ancora. Camminava in salita religiosamente lungo la strada asfaltata, in modo da non perdersi: un puntino nero in mezzo all'assurdità del bianco. Già, perché intorno a lui il bosco era stato sommerso da un manto di neve affatto soffice. Era neve acuminata, prossima al ghiacciamento, senza un tocco di buoni sentimenti. Di quella neve che non nasconde solo le cose in sé, ma che pure elimina gli odori. Di quella neve cattiva, che fa sentire soli. Tuttavia, ringraziò il cielo di vedere ancora esclusivamente il bianco tutto intorno, perché sapeva che se avesse cominciato a vedere il nero, quello sarebbe stato il sintomo inequivocabile di quello stato di salute che precede di appena una manciata di secondi lo svenimento. E sapeva bene che in quel luogo svenire, cadere, fermarsi, erano sinonimi di morire. Nessuno sarebbe passato di lì: nessuno sapeva dove fosse andato; quindi nessuno sapeva dove cercarlo.
Doveva almeno arrivare in cima. Stringere i denti il più possibile, ma arrivare alla vetta. Per un attimo, un attimo solo, riuscì a guardarsi dall'esterno: si vide, si esaminò, tirò le somme, espresse un giudizio. E comprese come lo avrebbe definito qualsiasi persona dotata di buon senso che avesse potuto conoscere il motivo di quel suo tanto penoso vagare: un folle. Non trovò argomentazioni per controbattere all'accusa e accettò suo malgrado la sentenza.
Non esiste persona o cosa al mondo, si diceva, per cui valga la pena morire. Eppure lui era lì, di sua unica volontà, pronto a rischiare il tutto per tutto, per il motivo più naturale e insieme più assurdo che si possa immaginare: aveva perso una cosa, una cosa troppo importante che voleva, anzi doveva, ritrovare a ogni costo. Non si trattava di un oggetto materiale, di quelli che si toccano con le mani, ma nemmeno di un astratto concetto esistenziale, tipo la dignità, l'amore, la fiducia o quant'altro possa venirvi in mente. Non cercava la chiave di un forziere, né la promessa di un domani migliore.
Niente di tutto ciò: aveva perso la Poesia.
La Poesia che sta nella risata di un bambino, dentro a un ramo d'autunno con un sola foglia ancora appiccicata, in quel minuto d'attesa che occorre per gustare un caffè, o nel gatto che vedeva tutte le mattine mangiare da un piatto di plastica sotto casa sua... non la vedeva più. L'aveva avuta, l'aveva vissuta... ma non riusciva più a trovarla. Cosa che, pensava, era decisamente più terribile rispetto a perdere una mano, un piede o un occhio. Specie per chi, come lui, aveva il cuore straziato. Per chi soffriva di quel male che tutti, in un modo o nell'altro, sperano un giorno di poter provare, perdere la Poesia, la propria umanità, l'essenza prima delle cose medesime, equivaleva un po' a svenire lungo quella strada che si stava sforzando di percorrere.

Prima perdere la cognizione di ciò che è intorno, come coprendo tutto con un velo maledettamente bianco. Non distinguere i contorni, sentire di colpo gli odori che non ci sono più, che sono svaniti. E passare, altrettanto rapidamente, da quell'assoluta immensità di bianco, al margine opposto della cognizione. 
Dall'arcobaleno delle cose al bianco; dal bianco al nero.

Fu in quel momento, quando meno se lo aspettava, mentre era assorto in queste riflessioni, che fu colto dallo stupore di veder finire la strada asfaltata, gli alberi innevati, il cielo senza umore. Era in cima, al valico, pronto alla discesa: e, verso quell'altro costone, nella valle che gli si stagliava dinnanzi agli occhi, vide uno spettacolo che non sapeva spiegarsi e che non avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare definendosi sano di mente.
Il sole illuminava i campi coltivati che cominciavano a ingiallirsi, come in una primavera già inoltrata. Abbondanti erano le porzioni di maggese, in preponderanza rispetto al resto, dove le balle di fieno annoiavano gli spettatori a furia di farsi contare. Un ruscello veniva giù rigoglioso, ma non troppo: giusto quanto bastava per far girare, seppur lentamente, la ruota del mulino ad acqua. In lontananza, un tendone tutto rosso e bandierine variopinte, ed eco di grida infantili provenienti da un sogno, o forse da un ricordo lontano. Più vicino una masseria, simile a tante che si vedono nella regione centro - meridionale, collegata in qualche modo con il mulino.
Una figura si muoveva, avvicinandosi all'argine del fiumiciattolo. Non era un contadino, non ne aveva la corporatura... L'uomo che cercava la Poesia fece per avvicinarsi e iniziò la discesa; ma mise un piede in fallo, o forse si mosse troppo rapidamente, e inciampò. La caviglia doveva essersi contusa. Tentò comunque di trascinarsi il più possibile a valle, strusciando di sedere, come se fosse stato ancora sulla neve e a bordo di uno slittino. Non si trovava vicino quanto avrebbe desiderato, ma era tuttavia abbastanza da poter distinguere e capire. Quella figura che, accomodata sulla riva osservava il suo stesso riflesso nell'acqua era una ragazza, e più precisamente un clown del circo. La pagliaccina si sistemò un fiore appena colto color arancio sul cappello mezzo sfondato, si aggiustò il trucco controllando con cura l'effetto che sembrava fare, si tirò giù le maniche della camiciona prima arrotolate.

Una nidiata di fate nel frattempo aveva circondato l'uomo infilandogli in mano un taccuino e una matita apparsi da chissà dove. Una di loro, quindi, cominciò a battere un po' più forte le sue alette setate e si librò più in alto, finché non gli si trovò vicino all'orecchio.
"Avanti caprone, ce l'hai fatta... adesso scrivi!"
... ma fu inutile. Lui aveva già cominciato.

L'Ignorante e la Fata

Stavo flashando di brutto quando ho raccontato questa storia a un bambino di sette anni. A dire il vero, però, le cose non sono andate proprio così: l'unico personaggio reale di questa storia è la Poesia. La mia unica, invisibile, onnipresente compagna. E per un po' l'ho veramente persa senza riuscire a ritrovarla. E veramente l'ho ritrovata grazie alla comparsa di una fata. Una voce proveniente da non so dove ha parlato alle orecchie di un ignorante il quale, con le sue umili parole, ha tentato di ripetere quanto gli era stato suggerito. Non sapendo come apostrofarla l'ha chiamata "pagliaccina", ma nemmeno lui ne conosce il motivo. 
In mezzo a così tanti "perché?" poco chiari, il bambino non ha capito la mia storia.
Quando non capiscono, i bambini tendono a facilitare le cose, se non addirittura a renderle arbitrariamente simili a quelle dalle linee più nitide e semplici. 
Sia io che il bambino avremo la nostra verità, entrambe racconteranno una storia diversa. E tutte e due saranno, a loro modo, vere.


La psicanalisi del perdente (100 giorni - parte 2)

Noiosamente seduto per terra nel salotto di una casetta al Terminillo, me ne stavo a scrivere in tranquillità. A dire il vero non so quanto sia corretto usare il termine "scrivere"... stavo semplicemente appuntando tutte le cose che mi passavano per la testa: proverbi, aforismi e modi di dire si susseguivano secondo collegamenti logici che non saprei spiegare. Avevo praticamente finito il foglio, quando Virgy mi si è seduta accanto. "Uè poeta! Cosa scrivi?" mi ha chiesto con il suo inconfondibile accento veneto.
"Mi appunto tutte le cazzate che mi vengono in mente. Non chiedermi quali siano le connessioni logiche perché non ne ho idea..." le ho risposto, aggiungendo poi "roba da far rincoglionire gli psicanalisti"
Ha riso. Poi i suoi occhi hanno cominciato a correre da una riga all'altra, passando velocemente da un paio di versi di Ligabue a un vecchio striscione della curva sud, per andare a finire sulla citazione di scifoniana memoria "E, naturalmente, niente chiappe di Eva Kant!". Poi però quegli occhi hanno smesso di correre. Il quarto pensiero era tratto da una canzone di Zucchero.

Ridi pure, ma non ho più paura
di restare SENZA UNA DONNA!

Virgy ha alzato lo sguardo a osservarmi: "Davvero non hai più paura di restare senza una donna?"
Ho risposto allo sguardo senza proferire parola, ravvisando finalmente anche i primi segni di tutto l'alcol che, ormai da sei ore, buttavo giù quasi senza sosta.
Si è risposta da sola "Non ci credo" si è alzata ed è andata in cucina.

Il Giardino Nascosto

E' strano non vedere la donna che si ama per diversi giorni e starci male. Se lei non è la tua donna, intendo.
E' strano, come è strano spendere ore e fiumi d'inchiostro per qualcosa che non c'è.
Immagino che anche questo sia un tratto fondamentale e irrinunciabile dell'essere umano: sognare... e sperare.
Non ha molto senso... ma immagino sia proprio per questo che ci piace.

She'll let you in her mouth
if the words you say are right
If you pay the price
she'll let you deep inside
But there's a secret garden
she hides



Mai ho capito la veridicità di questa canzone come quando l'ho vista, a una festa, sola, senza scambiare parola con nessuno, seduta appartata. In quel momento me ne sono reso conto, ed è proprio vero: le donne hanno un loro giardino segreto, e in pochissime permettono a qualcuno di metterci anche solo il naso.
Ah, e io sono un coglione.
Perché al suo giardino, a lei, non solo ho più volte preferito il pallone, gli amici e gli amici tossicomani, ma in quell'occasione anche una fiaschetta di vodka liscio. Perciò, alla fine dei conti, è inutile lamentarmi. Sbaglio?
In fondo è stato tristissimo, oltre che di pessimo gusto, ballare sotto invito di una vecchia amica e pensare, tenendola tra le braccia "Se tu ora fossi quell'altra ragazza, lei che forse ci starà guardando, io sarei l'uomo più felice della terra..."

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